Espresso Europeo - 5 giugno

Newsletter a cura del Desk Europa - Il Caffè Geopolitico

Il vento del populismo continua a soffiare 

sull'Unione Europea?


L’Infografica: dal margine al centro, i partiti che sfidano il sistema
come nuova normalità politica europea 

Infografica a cura della Redazione
 

Di che cosa parliamo

Il vento dei partiti sfidanti, "challenger", continua a soffiare in Europa, con intensità variabile ma costante. Il termine è più preciso e meno caricaturale di "populisti". Parliamo di forze politiche eterogenee, trasversali, spesso euroscettiche o illiberali, che contestano le élite esistenti ma rimangono (almeno fino ad ora) internalizzate nel gioco democratico e parlamentare.

In Francia, il Rassemblement National di Marine Le Pen è oggi il primo partito in termini di consenso relativo. Il successo del RN non è il frutto di una radicalizzazione crescente, ma di una strategia ambivalente: il cosiddetto "marinisme" si propone come una normalizzazione estetica e istituzionale, una ‘strategia della cravatta’ che punta alla rispettabilità, ma che continua a oscillare tra presentabilità e pulsioni populiste. Marine non è il padre (Jean-Marie, fondatore del partito): il distanziamento è costante, anche simbolico. Ma il lepenismo è tutt'altro che superato: sopravvive sotto la patina di rispettabilità, pronto a riemergere quando serve radicalizzare il messaggio. La recente condanna giudiziaria ha rivelato il vero volto di questa ambiguità: alla reazione moderata di facciata (impersonificata soprattutto dal giovane ‘delfino’ di Le Pen, Jordan Bardella) ha fatto seguito un ritorno al registro vittimista e antisistema, alimentando la narrativa dell'establishment che elimina l'opposizione per via giudiziaria. Il "marinisme" si rivela quindi non come una vera metamorfosi ideologica, ma come un equilibrismo retorico, utile a contendere lo spazio del potere mantenendo l'identità del "popolo contro le élite".

In Germania, l'Alternative für Deutschland (AfD) ha raggiunto il 20,8% a livello nazionale, diventando la seconda forza politica. Nei Länder orientali ha superato il 40%, consolidandosi come espressione duratura delle fratture economiche e identitarie post-riunificazione. Anche se formalmente esclusa dal governo, la sua forza è stata tale da costringere la CDU a manovre tattiche d'emergenza, come il voto accelerato da Merz per sospendere il "freno al debito" prima dell'insediamento del nuovo Bundestag.

In Portogallo, Chega ha superato il 20%, diventando per la prima volta decisivo in Parlamento. L'eccezione portoghese al populismo è ufficialmente tramontata. Il sistema politico si frammenta, e il populismo muta da marginale a strutturale.

In Romania, Nicușor Dan ha vinto per un soffio su George Simion (nella ripetizione delle elezioni di alcuni mesi fa dove aveva vinto il filo-russo Calin Georgescu, poi escluso per irregolarità), con una diaspora tendenzialmente schierata a destra e un contesto fortemente polarizzato. Simion ha denunciato brogli dopo aver inizialmente accettato il risultato. Anche qui, il "challenger" non vince ma impone la propria agenda.

Nel 2023, in Polonia, dopo anni di dominio incontrastato della destra oscurantista, le elezioni parlamentari sono state vinte dal centro liberale ed europeista guidato da Donald Tusk. E Tusk è davvero molto legato all’UE, essendo anche stato Presidente del Consiglio europeo. Anche con le riforme – di cui il Paese ha un disperato bisogno, nonostante un’economia in crescita – non scherza. Ma nell’ultimo anno, l’attuazione dell’agenda riformista è stata ostacolata da una coabitazione difficile: da un lato, un governo liberale; dall’altro, una Presidenza della Repubblica ancora saldamente nelle mani della destra. Una coabitazione confermata anche dall’esito delle recentissime elezioni presidenziali, che hanno vinto vincere (seppur di pochissimo) il candidato sovranista Karol Nawrocki. La guerra in Ucraina aveva riattivato un’identità europea latente, frenando pulsioni da “Polexit”, ma alla luce dell’esito delle presidenziali il quadro rimane fragile.

In Italia, Giorgia Meloni incarna la metamorfosi da forza "anti-sistema" ad attore istituzionale: guida Fratelli d'Italia, ma in UE assume un ruolo ponte tra PPE ed ECR, risultando funzionale alla stabilità, specie sui dossier Ucraina e rapporti con Orbán. Mentre la Lega di Matteo Salvini, iscritta in UE al gruppo dei “Patrioti”, oscilla tra il sostegno a Trump e quello a Putin. 

Curiosamente, lo stesso discorso vale anche al contrario: nei Paesi fuori dall’Unione, l’europeismo non è sempre un’ideologia progressista o sistemica. In Albania, ad esempio, il premier uscente Edi Rama ha vinto un quarto mandato con una piattaforma fortemente europeista, promettendo l’ingresso nell’UE entro il 2030. Eppure, anche le opposizioni, pur adottando retoriche populiste o ispirate alla destra americana, non hanno mai messo in discussione l’obiettivo europeo. Qui l’euroscetticismo non è conveniente, perché l’UE rappresenta ancora una promessa di progresso, status e stabilità (oltre che di ingenti aiuti economici). Il risultato è che, paradossalmente, l’UE funziona meglio da fuori: come meta desiderabile, più che come sistema da abitare. È il rovescio della medaglia della disillusione interna – e un monito: l’europeismo non è un riflesso ideologico, ma una narrazione, che cambia significato a seconda del luogo da cui si guarda l’Europa.

La posta in gioco

Il quadro che emerge è quello di un'UE dove i partiti "challenger" non sfondano la fortezza, ma la scalano gradualmente. In molti casi si legittimano, si istituzionalizzano, e condizionano il comportamento del centro. L'effetto non è rivoluzionario, ma carsico: l’adattamento dell’ecosistema politico europeo a una grammatica che essi impongono, anche restando all’opposizione. Il loro successo si misura meno nei seggi che occupano, e più nell’agenda che dettano.
E anche qualora arrivino al governo, il paradosso è che possono legittimarsi con l’elettorato sfruttando proprio i vincoli europei: denunciando Bruxelles come gabbia, ma usandola per scaricare responsabilità: è la politica del “vorrei ma non posso”

Non è un meccanismo esclusivo del rapporto con l’UE: una simile ambiguità si osserva anche nel modo in cui certi governi si relazionano a contesti di governance internazionale e multilaterale. Emblematico, in questo senso, è il caso italiano sull’accordo pandemico dell’OMS. Il 20 maggio, l’Italia si è astenuta – insieme ad altri 11 Paesi, tra cui Russia, Iran, Israele, Slovacchia, Romania e Bulgaria – al momento della votazione per l’approvazione del documento sostenuto da 124 Stati. Il governo ha giustificato la scelta richiamandosi alla difesa della sovranità nazionale, pur riconoscendo che il testo non conteneva obblighi vincolanti. È un esempio di equilibrismo sovranista: rassicurare la propria base identitaria senza rompere formalmente con il sistema multilaterale.

Tornando al livello europeo, a questa tensione tra narrativa interna e responsabilità internazionale si somma un altro corto circuito: quello tra aspettative democratiche e prassi istituzionali. Lo “Pfizergate” si inserisce perfettamente in questa frizione: il 14 maggio, la Corte di Giustizia UE ha annullato la decisione della Commissione Europea di negare l’accesso agli SMS tra Ursula von der Leyen e il CEO di Pfizer, Albert Bourla, scambiati nel 2021 durante le trattative sui vaccini. Non è uno scandalo sui vaccini – non vi è alcuna accusa di corruzione – ma un caso emblematico di opacità procedurale: la Commissione è stata censurata per non aver fornito spiegazioni credibili sull’irreperibilità dei messaggi. Un episodio apparentemente tecnico, ma politicamente rilevante: presta il fianco alle accuse di accentramento e assenza di accountability, offrendo ai partiti antisistema un’ulteriore leva per delegittimare l’Unione.

La posta in gioco, allora, non è semplicemente l’ascesa dei “challenger”, ma la ridefinizione stessa del ruolo dell’UE: da progetto politico a scudo narrativo. Da motore dell’integrazione a zona franca della deresponsabilizzazione. Ed è questo, più dell’euroscetticismo dichiarato, il rischio più serio: che l’UE sopravviva, ma come alibi, non come orizzonte.


Come la vediamo noi

L’errore forse più grave nel discorso pubblico europeo è continuare a invocare una “Europa più politica” senza interrogarsi sulla sua architettura. L’UE non è nata per essere uno spazio di conflitto democratico. È stata costruita per “legare le mani” agli stessi Stati membri, moderni Ulisse che hanno delegato il timone a soggetti sordi alle sirene del consenso popolare: la Commissione Europea, la BCE, la Corte di Giustizia. Questo “tripode tecnocratico”, che persegue il paradigma efficientista (rispetto al quale “There is No Alternative”, avrebbe ribadito Margaret Thatcher), rappresenta la vera spina dorsale della governance europea. Non risponde a una maggioranza politica , non emerge da una legittimazione elettorale (nonostante le nomine dei Commissari debbano passare al vaglio del Parlamento), non è sfiduciabile nel senso proprio del termine. Non è un’espressione di sovranità popolare, ma una custodia funzionale dell’integrazione economica e giuridica.

In questa logica, la Commissione non governa: vigila, interpreta, attua. Non ha un’agenda politica propria, ma una traiettoria precostituita: promuovere il mercato unico, difendere i trattati, garantire la legalità comunitaria. Non decide se integrare, ma solo come, e quanto rapidamente. In uno Stato nazionale, una tale concentrazione di poteri in un organo non eletto violerebbe ogni principio di separazione dei poteri stessi. Come è già stato scritto, se l’Unione fosse uno Stato, non potrebbe entrare a far parte di sé stessa: mancherebbe dei requisiti minimi di democraticità previsti per l’adesione.

Il Parlamento Europeo, d’altronde, resta istituzionalmente inefficace come "correttivo democratico". Le sue elezioni non generano una maggioranza politica che possa determinare un esecutivo: i cittadini votano partiti nazionali, per agende nazionali, in chiave spesso domestica. La tornata europea finisce così per assumere i contorni di un test elettorale di medio termine per i governi degli Stati membri, utile più a misurare il consenso domestico che a incidere sul progetto comune. Non c’è rapporto fiduciario tra Parlamento e Commissione (non si può sfiduciare chi non è espressione di una maggioranza politica); la mozione di censura esiste, ma è un’arma spuntata, dipendente da una maggioranza qualificata spesso difficile da ottenere. Nessuna linea di governo nasce dalla volontà popolare europea. E dunque nessuna accountability autentica. 

Così, quando si parla di “Unione politica”, si cade spesso in un’ambiguità semantica. Se l’invasione russa dell’Ucraina ha fatto da catalizzatore rispetto a una “politicizzazione” dell’UE, parliamo in realtà soprattutto dell’azione dei singoli Stati membri: sono i governi nazionali che agiscono come attori politici sovrani, tentando di capitalizzare o correggere l’inerzia dell’architettura comune. Non parlano per l’Europa, ma a nome proprio, candidandosi a locomotive temporanee di un processo che resta senza direzione unitaria. L’UE come soggetto politico continua a non esistere, nonostante la figura dell’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri. Esiste un consesso di Stati, ognuno con la propria agenda. La logica intergovernativa del Consiglio si intreccia con quella sovranazionale delle istituzioni “impolitiche”, producendo un sistema ibrido, spesso in tensione.

In questa macchina priva di frizione, i partiti sfidanti trovano terreno fertile. Denunciano Bruxelles come vincolo, salvo poi rifugiarsi dietro quei vincoli per evitare decisioni impopolari. Usano la retorica della sovranità, ma praticano blame avoidance sistemico. E intanto, il cosiddetto “mainstream” risponde con automatismi tecnocratici, irrigidendo ulteriormente il sistema.

Tuttavia, l’UE non sembra porsi su una prospettiva fallimentare. Anzi, continua a funzionare finché non le viene chiesto di essere ciò che non è – una democrazia nel senso che si applica ai sistemi politici degli Stati nazionali. Ma se non si ha il coraggio di riconoscere che l’UE è stata concepita per disinnescare il conflitto politico, non per ospitarlo, allora il rischio non è solo il logoramento dell’integrazione. È la disillusione sistemica. È la fine dell’Europa come orizzonte politico condiviso.

Che fare, dunque, per disinnescare in maniera efficace questi conflitti? Le possibili soluzioni ci sembrano essenzialmente due. La prima è tornare su un percorso di crescita economica solida e duratura. Le sfide attuali hanno portata epocale (transizione energetica, guerra commerciale, tensioni geopolitiche,...) ma l’UE può avere gli strumenti adatti: la Bussola per la Competitività, nuovi accordi commerciali, il completamento del Mercato Unico. A patto che vengano attuati. Una crescita più robusta, diffusa ed equa sarebbe il deterrente più potente alle spinte anti-sistema che prosperano da Ovest a Est.

La seconda è una riforma della propria governance interna, che sia basata su due pilastri: l’abolizione del principio di unanimità per le decisioni in sede di Consiglio, e la possibilità di dare vita a forme di integrazione approfondita che non necessariamente coinvolgano tutti i 27 membri (cosa non difficile da fare perché ha già una base nello schema di Cooperazione rafforzata previsto dal Trattato di Nizza).
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Per non distrarsi

Cosa è successo nel frattempo in Europa?


Regno Unito: dopo gli accordi con l’UE ha ufficialmente inizio il “Brexit reset” 
Cosa è successo?
A quasi 5 anni dall’abbandono ufficiale dell'UE da parte del Regno Unito, i due blocchi hanno raggiunto uno storico accordo che coinvolge diversi settori e che contribuirà a riavvicinare Londra a Bruxelles e alle altre capitali degli Stati membri dell’Unione. Promessa mantenuta dunque, almeno per il momento, da parte del Primo Ministro Laburista Keir Starmer, che aveva basato la propria campagna elettorale proprio sul cosiddetto “Brexit reset”, un annullamento graduale degli effetti negativi provocati, secondo alcuni, dalla Brexit.
Perché è importante?
L’accordo consentirà al Regno Unito di armonizzare i propri standard a quelli di diversi settori socio-economici dell’UE. Una maggiore cooperazione nel settore della Difesa potrebbe aprire le porte al Regno Unito verso la partecipazione ad operazioni civili e militari congiunte con l’UE, oltre a garantirgli l’accesso ai finanziamenti del piano di riarmo “Readiness 2030”. Novità anche per i settori energetico e siderurgico, con il probabile “rientro” del Regno Unito nel mercato europeo. Prolungato inoltre fino al 2038 l’accordo che consente ai pescherecci europei di stazionare nelle acque territoriali britanniche. In ultimo, le parti si sono date appuntamento per ulteriori negoziati volti a liberalizzare e semplificare gli scambi commerciali e la mobilità giovanile. 
Per approfondire:

Nawrocki è il nuovo Presidente polacco: continua la coabitazione tra destra oscurantista e Tusk  
Cosa è successo?
Il 1 giugno si è tenuto in Polonia il ballottaggio delle elezioni presidenziali. Ha vinto il candidato sovranista di Diritto e Giustizia (PiS), Karol Nawrocki con il 50,9% dei voti. Sconfitto lo sfidante Rafał Trzaskowski, sindaco di Varsavia e candidato del partito di governo Coalizione Civica, il quale si è fermato al 49,1%.
Perché è importante?
Il successore di Andrzej Duda sarà dunque un altro esponente vicino ai nazional-conservatori del PiS. Si preannuncia una coabitazione assai complessa con il Primo Ministro Donald Tusk, europeista e liberale. Lo scetticismo di Nawrocki nei confronti dell’UE e dell’espansione della NATO, unito alle sue posizioni intransigenti su diritti civili e immigrazione rischia di paralizzare la politica polacca. Il Paese sta acquisendo un’importanza crescente negli equilibri europei, dunque questa situazione politica potrebbe rappresentare un problema non solo a livello nazionale ma anche per gli altri Stati membri dell’UE e della NATO.     
Per approfondire:

Ungheria e UE sempre più lontane: le riforme di Budapest preoccupano Bruxelles  
Cosa è successo?
Non accennano a ridursi le divergenze ideologiche e politiche tra il governo ungherese e le istituzioni dell’UE. Secondo una recente dichiarazione del Commissario Europeo per la democrazia, lo stato di diritto e la tutela dei consumatori Michael McGrath, l’ammontare dei fondi diretti all’Ungheria “congelati” dall’UE avrebbe raggiunto i 18 miliardi di Euro. La causa sono le ripetute e sistematiche violazioni dello stato di diritto e delle libertà sociali perpetrate da tempo dal governo di Budapest. Tale cifra potrebbe tuttavia aumentare ulteriormente, dal momento che l’Ungheria si dice pronta ad approvare riforme supplementari per “amministrare meglio la società e tutelare la sovranità nazionale”, come dichiarato dal Primo Ministro Orbán.
Perché è importante?
La Commissione von der Leyen II punta forte sull’irrigidimento della condizionalità per accedere ai fondi comunitari. Parallelamente, il governo ungherese sta portando avanti una stretta sulle libertà civili e sociali mediante svariate riforme. Negli ultimi mesi, il governo di Budapest ha approvato numerose leggi di natura “illiberale”: tra queste, la creazione di una “lista nera” per le organizzazioni che ricevono finanziamenti esteri e il divieto di celebrare manifestazioni per i diritti civili e l’orgoglio LGBTQ+. Tali provvedimenti, apertamente contrari ai valori e agli standard dell’UE, rischiano di portare il rapporto tra Budapest e Bruxelles ad un punto di rottura. 
Per approfondire:

L’UE adotta il 17° pacchetto di sanzioni contro la Federazione Russa  
Cosa è successo?
Lo scorso 20 maggio il Consiglio Europeo ha adottato il 17° pacchetto di misure restrittive economiche e individuali contro la Federazione Russa. L’obiettivo rimane quello di limitare l’accesso alle tecnologie militari e ridurre gli introiti del governo di Mosca, ritenuto colpevole di un’aggressione illegittima nei confronti dell’Ucraina e dunque di aver violato la Carta delle Nazioni Unite. Tale provvedimento si inserisce in un sistema sanzionatorio più ampio, che prende di mira le attività ibride e le violazioni dei diritti umani perpetrate dall’esercito russo in territorio ucraino.
Perché è importante?
Si tratta del blocco di sanzioni più ampio adottato dall’UE contro la Federazione Russa dall’inizio dell’invasione del febbraio 2022. I settori maggiormente colpiti dal 17° pacchetto sono quelli dell’energia e delle tecnologie militari-industriali, oltre a quello navale in cui viene raddoppiato il numero di navi sottoposte a divieto di rifornimento e  accesso nei porti europei. Obiettivo primario è dunque la cosiddetta “flotta-ombra”, un sistema di navi battenti bandiere di Stati terzi che cooperano con la Russia per sostenerla aggirando embarghi e divieti. In ultimo, il 17° pacchetto aumenta anche il numero di soggetti ed entità sanzionati per aver commesso azioni contro l’integrità territoriale e il patrimonio culturale dell’Ucraina. 
Per approfondire:

Allargamento UE: l’Albania corre veloce verso la membership. Il Parlamento Europeo conferma lo stop all’adesione della Turchia  
Cosa è successo?
Durante il mese di maggio si è tenuta la quinta Conferenza intergovernativa tra l’Albania e i rappresentanti della Commissione Europea. L’obiettivo del governo di Tirana è quello di concludere l’adeguamento agli standard europei entro il 2027, per poi procedere con l’ottenimento della membership entro il 2030. Al contrario, attraverso l’adozione di una risoluzione non legislativa, il Parlamento Europeo ha confermato il congelamento del processo di adesione della Turchia, iniziato nel 1987 con la candidatura per entrare nell’allora Comunità Economica Europea.
Perché è importante?
Tra tutti gli Stati candidati a entrare nell’UE, l’Albania è quello che al momento corre più velocemente verso la membership, complici una serie di riforme settoriali effettuate dal governo socialista. Ricordiamo che l’ultimo Paese a fare il suo ingresso nell’UE fu la Croazia nel 2013. L'adesione all'UE non sarà invece parte del futuro prossimo della Turchia, che ha visto deteriorare gradualmente le proprie libertà democratiche e lo stato di diritto. Il messaggio del Parlamento Europeo è stato incontrovertibile: la Turchia è attualmente lontanissima dagli standard europei e dovrebbe rivedere le proprie politiche per evitare di essere esclusa ulteriormente dalla comunità internazionale.
Per approfondire

A cura di Ginevra Dolce - Giorgio Fioravanti - Davide Tentori  

Il Caffè Geopolitico
Espresso Europeo è lo speciale del Caffè Geopolitico dedicato alle vicende del Vecchio Continente.
La nostra
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